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Gli anni di piombo e le lacune da fiction

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di Giorgio Bellocci Rai 3, ore 8.30 di mercoledì 15 gennaio: tra gli ospiti in studio del talk show  Agorà c’è Marco Rizzo, oggi segretario nazionale del partito Comunisti Sinistra Popolare. Incalzato dal conduttore Gerardo Greco, Rizzo espone con la consueta disinvoltura affabulatoria i temi che più gli stanno a cuore: un viscerale anticapitalismo (ancora oggi) e i diritti calpestati dei lavoratori, in particolare gli operai. L’apparizione di Rizzo ad Agorà sembra l’ideale coda della miniserie Il giudice , secondo atto per Rai 1 della trilogia Gli anni spezzati , la cui parte conclusiva è andata in onda il 14 gennaio. Si può dire che dopo le feroci polemiche successive alla messa in onda dell’atto dedicato al commissario Calabresi, anche il racconto incentrato sul giudice Mario Sossi, vittima nel 1974 di un rapimento da parte delle Brigate Rosse, ha lasciato a desiderare non poco. La ricostruzione della vicenda, conclusasi con la liberazione di Sossi dopo un mese di prigionia, è accettabile e veritiera, così come dignitosa è stata la caratterizzazione del protagonista offerta da Alessandro Preziosi. Ma un vero e proprio affronto all’intelligenza degli spettatori è stato quello di creare un subplot fittizio e inutile, incentrato sulla storia d’amore tra Roberto Nigro, giovane magistrato collaboratore di Sossi, e la collega Claudia Maestrali (interpretati rispettivamente da Alessio Vassallo e Anna Safroncik). Un tocco rosa rovinoso, completamente fuori registro rispetto agli anni di piombo. Tornando a Rizzo, quello che è mancato totalmente nella fiction è stato il tentativo di indagare a fondo sulle motivazioni degli estremisti di sinistra, all’epoca inferociti per le palesi e gravi discriminazioni di classe create da governanti incapaci e in molti casi collusi con i servizi segreti. Giova ricordare che parliamo delle prime Brigate Rosse (quelle di Curcio e Franceschini, quest’ultimo deuteragonista del racconto come principale carceriere di Sossi). Di un nucleo animato certo dai cliché più estremi e sovente deliranti della lotta proletaria, ma distanti dagli istinti di violenza fine a se stessa che caratterizzò le successive formazioni eversive di sinistra. La fiction a tratti dipinge come il cattivo di turno il magistrato Francesco Coco, ucciso dai brigatisti per essersi opposto al patto che aveva portato alla liberazione di Sossi. Certo, una cosa un po’ all’italiana, a tinte chiare e scure, perché nel momento della morte Coco diventa l’eroe del partito della fermezza (quello che fece la fortuna delle Brigate Rosse del caso Moro). Ne  Il giudice, inoltre ,  le istanze del proletariato sono state ridotte a macchietta. Mancanze e anomalie (come nel caso de Il Commissario ) attribuibili alla scialba sceneggiatura del trio Stefano Marcocci, Domenico Tommasetti e Graziano Diana. Per sopportare il peso di una narrazione potenzialmente complessa, obiettivamente ci voleva ben altro. Magari un team di storici di professione.  Marco Rizzo, a volte un po’ come il famoso ultimo giapponese ritrovato nella giungla dopo la seconda guerra mondiale, porta avanti le stesse identiche istanze dei comunisti duri e puri degli anni ’70. Anche se poi oggi in piazza ci sono in prevalenza, con la medesima rabbia, i cosiddetti forconi. Come monito per il presente e il futuro, onde evitare il ripetersi di tragiche vicende, non sarebbe male se le ricostruzioni storiche, siano esse opere teatrali o film, si ponessero come obiettivo la più corretta e oggettiva rilettura di fatti e temi. 

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