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Prism, la privacy prima di tutto?

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I giganti di internet Apple, Facebook, Microsoft e Yahoo! hanno deciso di venire allo scoperto e rendere noti i numeri delle richieste di accesso ai dati dei clienti da parte della Nsa. Tra le aziende ce ne sono alcune che hanno più di un milione di utenti, numeri alla mano, sembra che le procedure di accesso del governo statunitense siano molto più inferiori del previsto tenendo presente gli iscritti di ogni piattaforma.I primi a muoversi nell’ottica di una maggiore trasparenza sono state Microsoft e Google che avevano chiesto esplicitamente al ministro della Giustizia americano Eric Holder e al  direttore del Federal Bureau of Investigation, Robert Mueller di pubblicare il numero di richieste provenienti dagli organi di controllo Usa, compresi quelli arrivati dal tribunale. L’agenzia ha risposto a metà dando il via libera alla pubblicazione dei numeri della Nsa ma non della corte, rendendo visibile solo parte della reale mole di dati che il governo vorrebbe ottenere. La scorsa settimana, quando lo scandalo è esploso, una moltitudine di internauti ha storto il naso in un’allenata smorfia indignata, cogliendo l’occasione per prendersela con tutti quei servizi web accusati di condividere sottobanco informazioni private con le autorità governative. L’indignazione in questo caso è sacrosanta, ma rischia di risultare un poco ridicola quando le persone che si battono il petto per chiedere maggiore privacy sono le stesse che tappezzano blog, social network e siti di photo-sharing con immagini, video, commenti e informazioni private , cercando la luce dei riflettori come falene nella notte. Secondo una recente ricerca condotta da Pew Research gli adolescenti di età compresa tra i 12 e i 17 anni sono quelli che in genere sanno meglio gestire le impostazioni sulla privacy di Facebook, e ciò nonostante passano le giornate a mettersi in mostra, ossia a condividere in Rete ogni singolo frammento della propria esistenza. I dati parlano chiaro, negli ultimi 6 anni gli utenti del social network più giovani mostrano sempre meno interesse a blindare i propri dati personali, la stragrande maggioranza di loro posta foto personali, il 71% indica il nome della scuola che frequenta e l’indirizzo della casa in cui vive, il 53% fornisce pubblicamente il proprio indirizzo email e il 20% il proprio numero di cellulare . In tutto questo, solo il  9% degli intervistati si dichiara preoccupato dai rischi che internet pone alla privacy. Si potrebbe pensare che questo atteggiamento menefreghista e superficiale sia caratteristico delle nuove generazioni, ma non è esattamente così: uno studio del 2012 infatti rivale immagini e dati con noncuranza, e sapere che un governo è in grado di accedere a qualunque tuo dato senza bisogno di mandati e richieste formali.  C’è chi, come gli psicologi Jean M. Twnege e W. Keith Campbell, individuano in questo atteggiamento una vera e propria epidemia narcisistica , una tendenza che induce sempre più persone a utilizzare internet come una piazza personalizzata in cui mettersi costantemente in mostra, davanti al maggior numero di persone possibile. In un certo senso, ci stiamo trasformando in una popolazione di narcisisti compulsivi e paranoici selettivi , attentissimi ad abbellire ogni singolo byte possa ricondurre alla nostra persona, ma sostanzialmente incuranti della portata di questa sovraesposizione, dell’effettiva accessibilità dei propri dati personali e di quanto sia difficile eliminare le proprie tracce a posteriori. Almeno finché qualcuno non scoperchia un vaso di Pandora come quello di Prism. Prima di mettersi in prima fila per chiedere maggiore tutela della privacy, molti utenti dovrebbero imparare a gestire la propria presenza in rete , e magari, a leggere le condizioni d’uso dei servizi a cui affidano una parte così intima della propria vita. Di solito, infatti, basta leggere quelle poche righe per capire che nel web 2.0, la privacy è qualcosa di molto vicino a una irrealizzabile chimera.

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