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Rai, 60 anni da signora spodestata

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Il 3 gennaio del 1954 cominciavano ufficialmente le trasmissioni della Radio televisione italiana. Fulvia Colombo inaugurò l’età della tv in Italia annunciando l’inizio del “regolare servizio di trasmissioni televisive”. La Rai, dunque, compie sessant’anni. Il tubo catodico, allora in bianco e nero, in poco tempo stregò l’intero Paese , nonostante l’alto costo degli apparecchi (250mila lire) e del canone (18mila lire). Il primo programma fu Arrivi e partenze , in onda alle 14.30 e condotto da Mike Bongiorno, che intervistava le personalità in transito all’aeroporto di Roma Ciampino. In pochi mesi, gli abbonati furono 24mila, nel giro di quattro anni si superò il milione e, nel 1963, quota 5 milioni. La Rai delle origini fu soprattutto pedagogica (Non è mai troppo tardi), pro-attiva nel formare didatticamente e civicamente i novelli cittadini repubblicani, sulla falsariga del partito di governo per eccellenza, l’egemone Dc che plasmò il nascente telegiornale.  Segnò il costume e la storia del dopoguerra con Lascia o raddoppia , sempre guidato da Bongiorno, e le pubblicità di Carosello , traghettando l’Italia lungo il boom economico per poi lanciarsi nei complessi anni ‘70 con l’arrivo del secondo canale e del colore (1977) , tecnologicamente e linguisticamente anacronistica, ma comunque trama portante dell’identità italiana, grazie al monopolio che durò fino all’arrivo delle tv private. Il varietà sfolgorò con Nino Manfredi, Walter Chiari e Ugo Tognazzi, con le personalità del cinema che strabordavano nel piccolo schermo, lo sport trovò spazi istituzionali con la Domenica Sportiva , Teleclub inaugurò il modello del talk show. Dagli anni ‘80 a oggi, la storia della tv di Stato è un flusso senza soluzione di continuità: lo scontro con Silvio Berlusconi e le sue tre reti nazionali ha caratterizzato il decennio ‘da bere’, in un duopolio viziato dal conflitto d’interesse e dalla commistione pervasiva tra televisione e politica, con la lottizzazione sempre più serrata della dirigenza di viale Mazzini e l’ascesa dirompente di quella che oggi è Mediaset, aiutata da leggi ad hoc. L’arrivo della pay-tv prima, del satellite e del digitale terrestre poi, hanno aperto nuove possibilità per contenuti alternativi, con i reality show che dopo qualche anno di fulgore hanno ceduto il passo ai talent e ai contributi del web. Proprio l’integrazione con internet , soprattutto attraverso i dispositivi mobili, è l’ultimo stadio dello sviluppo televisivo (in Italia e non solo): la televisione, che sessant’anni fa era sinonimo esclusivo di Rai, oggi diviene le televisioni, con una miriade di canali in multi-visione, tra tablet, smartphone, YouTube e i più classici schermi, ormai in lcd/led.  Lo smalto aristocratico e ingessato delle origini si è smarrito , le difficoltà economiche del servizio pubblico sono quanto mai stringenti, le richieste di privatizzazione e smantellamento parziale si moltiplicano, eppure la Rai – zoppicando – resiste. Secondo lo storico direttore generale Ettore Bernabei, oggi 92enne, “la tv pubblica è rimasta l’ultima difesa dei cittadini” . Ma la verità è che il piccolo schermo ha smesso di essere il riferimento (culturale e d’intrattenimento) delle nuove generazioni e necessita di riforme strutturali, che rinnovino dirigenza, burocrazia e programmi. L’effetto nostalgia domina troppo spesso i palinsesti e persino le produzioni più recenti: i fasti del passato sono irraggiungibili e perciò quanto mai mitizzati.  A sessant’anni dalla nascita serve ripensare la tv di Stato, con un occhio alle nuove piattaforme, al pubblico giovane, e un altro alla qualità , mettendo in discussione il modello generalista anche sui tre canali storici e scommettendo senza sprechi sul servizio pubblico che, a dispetto dell’età, non avrebbe perso la sua ragion d’essere. Il condizionale, però, è d’obbligo.

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