Il 12 marzo 1989, il londinese Tim Berners-Lee, con un documento programmatico de facto quanto anarchcico nelle intenzioni più profonde, inventò il web moderno , quello che venticinque anni più tardi stiamo utilizzando noi. La teoria di Lee proponeva una rete decentralizzata, sovranazionale, in cui le diverse intelligenze risultavano sparpagliate , spesso ai margini, ma comunque attive su molti fronti, così da contaminare l’ambiente e dare vita a un paesaggio variegato, contraddistinto dalla coesistenza di punti di vista e diversità. Ciascun nodo, nel progetto originario (che l’inventore non volle mai brevettare), si sarebbe potuto collegare a un altro, o ai servizi offerti in nel mondo virtuale, che a loro volta avrebbero aderito a protocolli condivisi e standard accessibili a tutti. In pochi anni, su questa base, germogliarono quelli che poi sarebbero diventati i colossi di internet: Google, Amazon, Yahoo! e Wikipedia, prima, poi Facebook e Twitter, strumenti e mondo non più solo virtuali, ma parte integrante della quotidianità di miliardi di persone. Il modello pensato da Lee è stato adottato assai rapidamente da imprese e governi : non era statico né verticale, così è evoluto in fretta e continua a mutare. Il rischio è che il web di oggi, proprio per le sue peculiarità strutturali, si trasformi in una sua nemesi oligarchica, gestita da pochi marchi e qualche primo ministro con mire dispotiche: gli Stati ne vogliono fare uno strumento utile al controllo politico (e perché no militare), mentre le compagnie mirano alla creazione di grandi potentati economici. Tutto ciò, insieme a nuovi focolai di ignoranza diffusa, annichilisce le potenzialità dello strumento, che di per sé potrebbe essere molto utile alla conoscenza e alla comunicazione (oltre che all’economia e alla semplificazione della burocrazia). Dopo un quarto di secolo, la rete ha fatto intuire i suoi pregi e svelato molti difetti : è un enorme archivio cui seve un filtro, un indirizzo; porta dati e informazioni in tempo reale ovunque, rendendo più complicata la vita delle menzogne o l’esclusione di intere fasce della popolazione dalle notizie, ma permette a chiunque di proporre la propria idea/versione dei fatti senza necessità di verifica o standard qualitativi; sviluppa un’economia digitale che supplisce e al tempo stesso fiacca quella novecentesca fondata su produzione-catena distributiva-consumo; è piattaforma vitale per la politica e i pensieri evolutivi, ma sempre sul limitare del populismo e del complottismo facile. Tutto e il contrario di tutto, proprio come gli utenti che la popolano. Per questo internet va preservato e migliorato , senza gridare allo sapuracchio virtuale e senza tarparne lo sviluppo e le intelligenze con web tax malpensate e moralismi da prima era televisiva. La rete esiste, è viva, evoluisce, bisogna fare i conti con il nostro futuro che è (anche) qui.
Un quarto di secolo su internet

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