Gli Italiani residenti all’estero hanno raggiunto quota 6 milioni e 400 mila, superando gli stranieri che vivono stabilmente in Italia
Nel 2024 l’emigrazione italiana ha raggiunto un nuovo massimo, assumendo contorni sempre più strutturali. A lasciare il Paese non sono più soltanto persone in cerca di esperienze temporanee, ma soprattutto giovani adulti in età lavorativa, spesso con un titolo di studio elevato. I dati mostrano con chiarezza che l’Italia non è solo alle prese con un calo demografico, ma con una perdita netta di capitale umano.
Secondo le rilevazioni più recenti, gli Italiani residenti all’estero hanno raggiunto quota 6 milioni e 400 mila, superando numericamente gli stranieri che vivono stabilmente in Italia, pari a circa 5 milioni e mezzo. È un sorpasso che ha un valore simbolico oltre che statistico: indica un Paese che, nel saldo complessivo, vede più persone uscire che entrare. Solo nel 2024 oltre 155 mila cittadini italiani hanno trasferito la propria residenza all’estero, il numero più alto mai registrato.
Le proiezioni demografiche indicano che entro il 2050 l’Italia potrebbe perdere fino a 4,5 milioni di abitanti. A pesare non è soltanto la denatalità, ma anche la dinamica migratoria descritta, che continua a sottrarre popolazione attiva: a differenza del passato, il fenomeno coinvolge in modo marcato le aree economicamente più forti del Paese, segnalando una difficoltà che non riguarda più soltanto i territori tradizionalmente fragili.
I principali istituti di ricerca – dall’Istat alla Fondazione Migrantes, dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani alla Fondazione Nordest – concordano nel descrivere una tendenza ormai consolidata: non si tratta esclusivamente di un riflesso dell’inverno demografico che interessa gran parte dell’Occidente, ma di un movimento che in Italia assume caratteristiche specifiche, legate alla qualità dell’occupazione e alle prospettive di crescita offerte ai più giovani.
I numeri vanno letti con cautela. L’aumento degli Italiani iscritti all’Aire è influenzato anche dal riconoscimento della cittadinanza ai discendenti di emigrati storici, soprattutto in America Latina. Tuttavia, la componente più dinamica resta quella dei giovani che hanno lasciato il Paese negli ultimi anni. Nel 2024, secondo l’Istat, il numero di espatriati tra i 18 e i 34 anni è cresciuto del 48% rispetto all’anno precedente. Nella fascia tra i 34 e i 49 anni l’aumento è stato del 38%. È una crescita che si inserisce in una tendenza avviata già nel 2013 e mai realmente invertita.
L’Osservatorio sui conti pubblici italiani sottolinea come prima della crisi economica del 2011-2012 l’emigrazione fosse un fenomeno molto più contenuto. Quel passaggio ha segnato una frattura profonda, mai del tutto ricomposta. Dopo una temporanea riduzione durante la pandemia, le partenze hanno ripreso ad aumentare dal 2022, con un’intensità ancora maggiore. Nel biennio 2022-2023, quasi un emigrato su due era in possesso di una laurea, un dato che evidenzia l’impatto diretto del fenomeno sulla capacità produttiva del Paese.
La Fondazione Migrantes invita a non leggere questo flusso esclusivamente in chiave emergenziale. Nei suoi rapporti parla di una mobilità che nasce da fragilità strutturali – precarietà lavorativa, squilibri territoriali, scarsa valorizzazione del merito – ma che contiene anche una componente di scelta individuale, legata alla ricerca di opportunità, riconoscimento professionale e mobilità sociale. Una lettura che amplia lo sguardo, senza però attenuare la portata del problema.
Resta centrale il divario retributivo tra l’Italia e molti Paesi europei. Le differenze salariali sono consistenti e attraversano numerosi settori. Un ingegnere informatico in Italia percepisce mediamente 34 mila euro lordi l’anno, contro i 67 mila del Regno Unito. Un architetto guadagna intorno ai 24 mila euro, a fronte dei 66 mila della Germania. Nel settore sanitario il confronto è ancora più penalizzante: la retribuzione di un medico in Francia supera di oltre il doppio quella di un collega italiano. Scarti significativi si registrano anche in professioni senza laurea, come operai specializzati, autotrasportatori e addetti alla ristorazione.
Secondo le associazioni che seguono gli studenti italiani all’estero, come United Italian Societies, però, il fattore economico da solo non basta a spiegare l’aumento degli expat. A pesare sono anche la maggiore integrazione tra università e mercato del lavoro nei Paesi di destinazione, sistemi di selezione più trasparenti e contesti professionali percepiti come più coerenti con le aspettative maturate durante gli studi.
L’impatto economico di questa emigrazione è rilevante. La Fondazione Nordest stima che la perdita di giovani qualificati sia già costata all’Italia circa 134 miliardi di euro in termini di investimenti formativi non valorizzati. Le imprese più innovative faticano a reperire personale adeguato e, in alcuni casi, sono costrette a rivedere o ridimensionare i propri piani di sviluppo. Non a caso, Lombardia e Veneto figurano tra le regioni che contribuiscono maggiormente alle partenze.
I rientri, al momento, restano limitati: meno di uno su tre rispetto alle uscite. E il saldo continua a peggiorare. Sempre secondo la Fondazione Nordest, per ogni giovane che sceglie di trasferirsi in Italia, otto italiani compiono il percorso opposto. Un rapporto che sintetizza, più di molti commenti, la portata di una trasformazione che sta ridisegnando il profilo demografico ed economico del Paese.

