L’emendamento alla legge di stabilità che prevede un nuovo sistema di tassazione per le imprese internet è stato approvato dalla Commissione di bilancio della Camera. L’iter verso la così detta Web Tax, o Google Tax, prosegue e passa ora al Senato. Non sono mancate critiche e proteste nei confronti del provvedimento : da un lato si propone di recuperare una parte degli enormi utili che i colossi (stranieri) del web incassano in Italia, ma che sfuggono al fisco grazie a un gioco (sin qui legale) di delocalizzazioni e scatole cinesi che portano a denunciare i bilanci in Paesi a tassazione agevolata; dall’altro c’è il rischio di dare il la a una nuova ondata di protezionismo che limita le potenzialità del mercato digitale nostrano. Il testo promulgato dalla Commissione prevede l’obbligo di partita Iva per il commercio dei servizi online , mossa che non consentirebbe più alle società di guadagnare in Italia e fatturare poi all’estero (in Olanda, Lussemburgo o Irlanda), come accade per Google, Amazon o Facebook. L’emendamento, voluto soprattutto da Pd e Sel, ha la controindicazione di obbligare le aziende che vogliono acquistare un servizio via internet, e-commerce ma anche pubblicità e altro, a farlo da soggetti dotati di partita Iva italiana, esclusivamente tramite bonifico bancario o postale. Niente metodi ti pagamento veloci e addio al (vero) libero mercato, con la scelta aperta a tutte le offerte presenti online. L’economia digitale italiana, che già evolve a passo lento, rischia un brusco stop proprio a causa del decreto che vorrebbe farne fruttare gli utili a vantaggio dello Stato e dei contribuenti. Inoltre, la Commissione europea potrebbe bocciare la normativa, rea di ostacolare la libera concorrenza e circolazione dei lavoratori, principi base del mercato unico continentale. Un pasticciaccio che piace alla Siae, che ha definito la nuova tassa “uno strumento di equità” e al presidente della commissione Francesco Boccia (Pd), e ha suscitato le proteste di addetti ai lavori e giornalisti di settore, oltre che della Camera di commercio americana. Probabile che la poszione più corretta stia nel mezzo, in un equilibrio difficile da trovare: serve che le grandi compagnie della rete paghino il giusto sui profitti avuti in Italia (e in Francia, Germania ecc.), ma imporre una pratica che rischia di creare la stagnazione del mercato online – cui tanto ci si affida per la ripresa dell’economia nazionale – è controproducente. Per un’operazione mediatica di grande clamore si rischia di danneggiare aziende, consumatori e, in ultimo, anche le casse statali , che con il calo dei consumi legati a internet incamererebbero comunque meno tasse del previsto dal settore. Ripartire da capo, con un approccio meno populista e più tecnico, potrebbe essere la soluzione migliore: magari inserendo la Web Tax nel più ampio, complesso e importante schema dell’Agenda Digitale, di cui tanto si parla da anni ma per il quale pochi parlamentari sembrano disposti a spendersi davvero. Forse per mancanza di conoscenze e competenze in merito.
La Camera vara il pasticcio Web Tax

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